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AGOSTO 2022 PAG. 52 - Si è aperta ufficialmente la "caccia" al pesce spada

 



di Maurizio De Cesare


Dai primi giorni di giugno si è aperta ufficialmente la “caccia” al pesce spada. 

Tra le zone tipicamente interessate a questo tipo di cattura vi è lo Stretto Messina dove hanno preso il mare le feluche, imbarcazioni dalla tradizione secolare, dotate di una alta struttura detta antenna dove trova posto il marinaio di avvistamento ed una lunga passarella che sporge oltre la prua sulla quale si colloca il marinaio arpionatore.

Così, secondo una tecnica tramandata di generazione in generazione, lungo le coste si perpetua la pesca del pesce spada. Parte della nostra storia, della nostra cultura e della nostra economia, la pesca in generale, vive oggi un momento molto delicato. 

L’attenzione crescente a preservare l’ambiente in generale e le biodiversità in particolare hanno messo prepotentemente al centro delle discussioni lo stato di salute del Mare Mediterraneo e lo sfruttamento delle risorse ittiche che costituisce parte importante delle economie degli oltre venti Paesi rivieraschi.

Il Mediterraneo è un mare con peculiarità uniche, connesse tra loro e che nel loro insieme incidono in maniera sostanziale sullo sfruttamento delle sue risorse ittiche. Nell’ottica di tutela sia della bio diversità, vera ricchezza del Mare Nostrum, sia dell’economia della pesca delle Nazioni europee impegnate in questa area ci si è sforzati di creare un impianto di regolamenti e leggi a tutela di una sempre minore quantità di risorsa ittica.

Nell’unica direzione di contenimento dell’azione di pesca, teoricamente a favore del ripopolamento dell’ambiente marino, si è continuato ad agire limitando i tempi di pesca (basti pensare che su 365 giorni/anno i pescherecci italiani escono in mare meno della metà dei giorni pur mantenendo le flotte operative, in termini di legge, tutto l’anno ininterrottamente) e le quantità del pescato. Tale politica ha prodotto l’effetto di aver dimezzato il tonnellaggio della flotta peschereccia italiana in meno di trent’anni senza gli sperati risultati di ripopolamento.

Il perché è spiegato dal mondo scientifico in un’opera di informazione intensificatasi negli ultimi anni.

“Il risultato delle politiche attuate fin qui è deludente”, spiega il professore Franco Andaloro, biologo marino di fama e ricercatore di grande esperienza, esperto anche di sfruttamento delle risorse marine.

“Il Mediterraneo, secondo la FAO, è il mare più sfruttato in termini di pesca ed aggiungerei il peggior gestito nel suo complesso. In un Mediterraneo che possiamo definire complesso dal punto di vista geopolitico e dove stanno per nascere le Zone Economiche Esclusive che consentiranno agli Stati un maggiore controllo di ampie zone di mare eliminando il “mere di nessuno”, la pesca italiano subisce diversi tipi di pressione: la pesca illegale da parte di flotte non comunitarie, che svolgono attività non autorizzate nei nostri mari; il bracconaggio effettuato  da persone che non hanno licenza di pesca che però utilizzano attrezzature e tecniche professionali a loro interdette, catturando e vendendo quantità considerevoli di pescato eludendo ogni controllo; la pesca ricreativa, che stranamente non è regolamentata come la caccia terrestre nei periodi e non richiede una licenza”. 

A ciò va sommata un’azione di pesca particolarmente intensiva di Paesi della costa meridionale come ad esempio Egitto, Tunisia, Marocco non soggetti alle regole europee che effettuano una vera e propria distorsione del nostro mercato ittico nazionale, alimentandolo di prodotti con un costo industriale molto inferiore a quello dei prodotti lavorati dalle nostre flotte, secondo le regole dettate dalla Comunità Europea.

Tutto questo insiste in un mare dove la tecnologia non assiste in maniera strutturata i corpi di vigilanza come la Guardia Costiera Capitanerie di Porto, che svolgono le mansioni di controllo al massimo delle loro possibilità, ma assiste il bracconiere che può facilmente vedere una motovedetta se prende il mare e dove va e può tranquillamente mettersi in regola nei tempi che intercorrono tra il reato ed il controllo.

A condizionare l’economia della pesca italiana si aggiungono tutte quelle pressioni sul sistema marino che vanno dai rifiuti e microplastiche, ai contaminanti da inquinamento generato dallo shipping (si pensi che dal Canale di Suez a Gibilterra, percorrendo una delle rotte più trafficate al mondo, passano via nave la maggior parte dei traffici merci mondiali). 

Una concomitanza di fattori che genera situazioni devastanti sui delicati equilibri marini nei pressi delle nostre coste e quindi in quelle aree di maggior interesse per l’economia della pesca.  

Di queste pressioni sul Mediterraneo ci sono poi quelle meno note ma di grande importanza come la penetrazione e l’affermazione di specie non indigene si pensi che sono quasi cento 100 le specie di pesci entrate nel mediterraneo dal Mar Rosso.

Da queste considerazioni “nasce l’esigenza di una visione di gestione della pesca “ecostistemica” e non una visione ridotta alla cattura ed allo sforzo di pesca.” Come suggerisce il professor Andaloro.

E’ auspicabile l’utilizzo di due strumenti già esistenti che andrebbero meglio utilizzati: la Gestione Integrata della Fascia Costiera ponendo in essere dei modelli socio-economici dove convivono tutte le attività che vi si esercitano attraverso un processo che identifichi, limiti e risolva i conflitti tra le categorie economiche; altro strumento è il Piano di Gestione degli Spazi Marittimi Nazionali, fino ad oggi questa gestione lascia troppo spazio alla libera interpretazione dei singoli Stati mentre dovrebbe far parte di un piano strategico complessivo, una sorta di Piano Regolatore del Mare… Nostrum.








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