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LUGLIO 2022 PAG. 58 - FOCUS PESCA

 



PER UNA POLITICA AL SERVIZIO DEL MEDITERRANEO

di Maurizio De Cesare

Le politiche europee sulla pesca stanno determinando una radicale rimodulazione delle tradizionali attività industriali legate al settore.
Incentrate principalmente sul principio della salvaguardia degli stock ittici, attraverso un apparato di regole in continua evoluzione, la strategia europea chiama gli attori economici coinvolti ad una modifica sostanziale di tradizionali modelli operativi aprendo spazi per un nuovo paradigma produttivo,
più in linea con i principi di un’economia attenta da una parte al rispetto dell’ambiente, dall’altra al rispetto della qualità dei prodotti. La filiera ittica presenta una varietà importante di specificità. 

Tra queste gli aspetti legati all’impatto socio-economico del settore sulle tantissime realtà produttive localizzate più o meno uniformemente lungo i circa 8.000 km di coste del nostro Paese.Senza utilizzare la lente di ingrandimento possiamo individuare da subito alcune complicazioni attive nei sistemi produttivi circa l’attività della pesca nel Mediterraneo. 

La prima vede la politica orientata a ridurre lo sforzo di pesca, a prescindere dalle implicazioni socio-economiche (Lo sforzo di pesca viene calcolato moltiplicando la capacità di pesca per il periodo di tempo in cui viene applicata, ndr). L’UE utilizza due formule per misurare la capacità di pesca: la prima si basa sulle dimensioni del peschereccio in tonnellate lorde (GT), la seconda sulla potenza dei motori tradotta in kilowatt.

Le restrizioni sullo sforzo sono quindi espresse in GT/giorni o in KW/giorni). Le restrizioni sullo sforzo di pesca servono ad evitare il sovrasfruttamento e figurano quindi in tutti i piani pluriennali finalizzati a ricostituire gli stock esauriti. Tuttavia tali restrizioni inevitabilmente limitano le dimensioni della flotta
presente in mare e il tempo trascorso a pescare.

Una politica orientata a restrizioni in termini di pesca impatta sulle possibili opzioni sociali di un territorio come quello italiano che in questo periodo vede il coincidere tre fattori di grande rilevanza che lo hanno compromesso: 
1) una grande crisi sostanziale di fondo che attraversa il settore accentuata dalla riduzione delle ore di pesca attuata dalla Commissione Ue nei confronti dell’Italia che deve far i conti con uno squilibrio tra
Nord Mediterraneo stretto  nelle norme europee ed un Sud Mediterraneo dove pur essendoci una regolamentazione si osservano minor controlli sullo sforzo di pesca.
2) l’emergenza Covid che di fatto ha rallentato la filiera corta che rappresenta la quasi totalità delle economie locali.
Basti pensare al devastante seppur necessario fermo delle attività di ristorazione, alberghiere e di catering che normalmente assorbe quasi tutto il pescato lungo tutta la fascia costiera nazionale.
3) l’indiscriminato aumento del costo del fattore energetico quali olio minerale e gasolio.

Bisogna tener conto che talune attività di pesca ad esempio nella pratica della tecnica a strascico, sono costantemente impegnate in una condizione di spazio temporale e vale a dire l’attività di pesca si ripercuote sul numero di ”cale” che ogni peschereccio effettua, generalmente 3 di due o tre ore l’una. Tenuto conto del raddoppio del costo del gasolio, non solo questa attività è matematicamente
antieconomica ma laddove la si effettua è impattante sui prezzi della filiera. 
D’altronde far quadrare questa economia aumentando il prodotto pescato non è realizzabile. In questo periodo la Comunità Europea ha imposto dei vincoli sulle ore di pesca incidendo ulteriormente su una proporzione pratica lontana dai ragionamenti teorici.

A completare il quadro generale di criticità, per il nostro comparto di ittico vi è una condizione di
non poco conto: una concorrenza distorta con le flotte pescherecce francesi e spagnole. È evidente
che mentre l’Italia deve fare i conti con una regolamentazione delle aree e modalità di pesca mediterranee sempre più stringente, francesi e spagnoli hanno flotte sia in Atlantico sia in Mediterraneo con specifiche regolamentazioni che risultano essere più favorevoli nelle aree oceaniche.

Per quanto riguarda l’impatto socio economico del settore un approfondimento andrebbe fatto sull’acquacoltura che tra l’altro genera un ambiente atropico danneggiando la bio diversità e la
capacità di rinnovamento dei sistemi marini, fornendo un prodotto alimentare con caratteristiche
inferiori a quello pescato in mare aperto perché ottenuto somministrando mangimi dedicati all’ingrasso.
Sarebbe auspicabile quindi, una maggiore sensibilità effettuando un cambio di paradigma da parte
del legislatore nella direzione di incentivare la filiera corta del pescato agevolando le flotte alla
pesca di un prodotto che “potrebbe/dovrebbe” essere assorbito dal relativo territorio applicando il
concetto di km zero al mare e diventare, perché no?, un’economia a “miglio zero”.

Si potrebbe ipotizzare un sistema delle quote come quello adottato per taluni prodotti dell’agroalimentare che con il giusto controllo garantirebbe uno sfruttamento delle risorse più calibrato alla richiesta dei territori costieri senza tralasciare la fornitura dei mercati lontani: il tutto con attento sguardo alla compatibilità

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