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FEBBRAIO 2024 PAG. 16 - Trieste, il corridoio doganale per un bacino internazionale

 

Trieste, il corridoio doganale per un bacino internazionale

Trieste ribadisce ancora una volta la sua natura di luogo di frontiera. La recente apertura del primo corridoio doganale europeo che collega il porto con l’interporto di Fürnitz in Carinzia (Austria) sta facendo emergere nuove tematiche da analizzare con attenzione. Spunti inediti che possono arricchire il dibattito sul futuro della portualità italiana. A conferma delle posizioni evidenziate nel corso dei lavori dello “Shipping, Transport & Intermodal Forum” di Rapallo dal presidente di ESPO e dell’AdSP del Mar Adriatico, Zeno D’Agostino, sulla necessità di guardare allo sviluppo del nostro sistema logistico guardando la complessità del mondo da nuove prospettive, facendo leva su un approccio che metta in primo piano, insieme a questioni economiche ed operative, anche politica e diplomazia.    

Quali considerazioni emergono dall’apertura del corridoio europeo?     

Dobbiamo partire da un concetto preciso. Trieste è l’unico porto italiano che gestisce un bacino quasi esclusivamente non domestico. Il che, con l’attivazione di uno strumento senza dubbio innovativo e interessante come un corridoio doganale internazionale, dovrebbe aprire una discussione giuridica, amministrativa e politica sulla gestione dei finanziamenti. Per quale motivo un governo dovrebbe finanziare un’infrastruttura che produce vantaggi sostanziali in un altro paese? Sono dialettiche che a Triste affrontiamo per primi ma che nell’ambito del dibattito sull’autonomia finanziaria dei porti non possono essere eluse. 

La posta in gioco? 

Di fatto parliamo della proiezione internazionale del nostro sistema portuale. Un corridoio doganale che collega due paesi, facilitandone i flussi di merci, pone la questione della gestione della complessità dei rapporti tra Stati. Un mercato extranazionale servito da un porto italiano, oggigiorno, usufruisce di un vantaggio su cui non ha effettuato alcun tipo di investimento. Ecco che sorge la necessità di dotarsi di strumenti adatti ad interpretare queste nuove esigenze.   

A che tipo di strumento si riferisce?

Insisto sull’istituzione di un soggetto centrale che si occupi di questi temi quotidianamente: sia in merito alle relazioni interne del nostro paese, in termini di dialettica centro-periferia, sia nel rapporto con Bruxelles. Anche qui, se vogliamo un’Italia al centro del Mediterraneo non è pensabile una presenza pubblica nelle dinamiche di sviluppo dei grandi porti del bacino. Come sistema, ad esempio attraverso CDP, abbiamo una importante capacità finanziaria che abbiamo già riversato nella cantieristica. Un’operazione del genere può essere fatta anche con la portualità. È chiaro che se uno scalo all’interno del Mediterraneo presenta una forte presenza italiana dovrà di necessità guardare con maggiore attenzione alle politiche rivolte verso il nostro Paese. Ma, ribadisco, per fare questo serve un soggetto apposito. 

Il ministero del Mare potrebbe indirizzare questa scelta? Assoporti potrebbe esserne protagonista?

Il problema è che si deve andare a toccare, a livello ministeriale, equilibri consolidati. Ci sono competenze del MIT, dell’Ambiente, degli stessi Esteri che andrebbero riorganizzate. È un lavoro enorme. Per quanto riguarda Assoporti la risposta è no. Le logiche cui mi riferisco devono avere una forza diplomatica che necessita di strutture, budget, funzioni fortemente articolate. 

L’evoluzione è verso enti portuali più “europei”?

Sul continente esistono già autorità transfrontaliere. Si pensa al North Sea Port condiviso da Olanda e Belgio. Ma stiamo parlando di fiscalità e organizzazioni del lavoro diverse. In Italia va trovata una strada che sia coerente con le caratteristiche del nostro sistema. Un primo passo sarebbe quello di sforzarsi di promuovere una politica portuale mediterranea all’interno dell’Ue, aumentando l’intensità del dialogo con Bruxelles. Di fatto l’approccio giuridico in un tema essenziale come quello dei servizi portuali fa riferimento quasi esclusivamente ai modelli del Nord. E non mi dilungo su altri ambiti. In questo c’è anche una nostra colpa. Non siamo riusciti a far capire che esistono altre alternative.  


Giovanni Grande

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