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La guerra commerciale vista da Pechino

 


Orientarsi tra i marosi delle tensioni commerciali tra Cina e USA è complicato. Tra minacce di tempesta e l’apparente quiete della bonaccia è difficile fare previsioni. Dal muro contro muro seguito dalla dura risposta di Pechino all’imposizione dei primi dazi americani, lo scorso aprile, si è passati, per lo meno, negli ultimi tempi, ad un clima più disteso e aperto alla negoziazione. Il disegno della nuova globalizzazione avrà certamente bisogno di tempo e di una buona scorta di senso pratico da parte di tutti i protagonisti della partita. Con Riccardo Fuochi, presidente di Swiss Logistic Center, e grande conoscitore delle dinamiche del Far East, cerchiamo di capire meglio in che modo questa nuova fase dei rapporti internazionali è vissuta dall’altra parte del globo. 
Come è stata vissuta in Cina la questione dei dazi? 
Uno degli effetti degli annunci di Trump è stato il rafforzamento della fiducia della popolazione nei confronti del governo cinese. Non che gli Stati Uniti siano percepiti come un nemico da combattere, ma il sentiment generale è quello di affidarsi alle risposte di Pechino rispetto a politiche che sono considerate estremamente sbagliate. Il Paese sotto questo aspetto non ha subito contraccolpi. 
E sul versante più propriamente economico? 
Qui si respira maggiore preoccupazione, in particolare per quei settori produttivi che lavorano in funzione del mercato americano. In realtà, le tensioni commerciali sono cominciate ben prima delle attuali decisioni di Trump e, in un certo modo, il sistema cinese, per una serie di ragioni interne ed esterne, aveva già trovato soluzioni alternative. 
Quali? 
Soprattutto nel settore dei prodotti a basso costo si è cominciato a delocalizzare, mantenendo le proprietà nominali delle imprese: Laos, Cambogia, Bangladesh, Vietnam, sono diventati i Paesi d’elezione per sfuggire ai dazi diretti. Prova ne sia la durezza con cui gli USA hanno proceduto nei confronti di una realtà come il Vietnam fortemente integrata con gli interessi cinesi. Diverso il caso delle produzioni ad alto valore aggiunto, dove si registra un cambiamento strutturale proprio alle dinamiche interne. 
Come sta cambiando l’economia cinese? 
Venendo meno il vantaggio del basso costo del lavoro si è cominciato a puntare sempre più sulla tecnologia. Ho avuto modo di visitare siti produttivi, anche nel settore della logistica, altamente automatizzati, con una componentistica, proveniente prevalentemente dalla Cina o da altre aree dell’Asia, che riduce la dipendenza dall’Europa o dall’occidente in generale. Trasferire impianti di tale grandezza e qualità, anche a causa della forza lavoro qualificata di cui necessitano, non è facile e non ha senso. L’obiettivo, sul medio-lungo periodo, è di servire direttamente i mercati asiatici in grande espansione. 
Una Cina più orientata ad una regionalizzazione del suo export? 
Fermo restando che non credo in un’interruzione netta dell’interdipendenza economica tra Far East e mondo occidentale, di certo le tensioni sui dazi stanno spingendo la Cina a formare sempre più accordi di collaborazione con i Paesi dell’Asia Centrale, importanti sotto gli aspetti delle materie prime, il Sud Est asiatico, compreso l’Indonesia e, in particolar modo, con l’ASEAN. Come dicevo, è impensabile sostituire il mercato americano nel breve termine, ma Pechino è impegnata attivamente nella ricerca di nuovi sbocchi. 
Si andrà verso una ridefinizione anche dei rapporti con l’Europa? 
Partendo da un principio di reciprocità noi europei avremmo tutto l’interesse a ridefinire e rafforzare i nostri scambi commerciali con la Cina, magari partendo da una parità di trattamento sulla distribuzione dell’e-commerce. In realtà, Francia, Germania, Polonia e, da un po' di tempo, anche la Spagna hanno incrementato il business con Pechino. A differenza dell’Italia, dove a dispetto del grande attivismo politico mostrato quest’anno, non si segnalano iniziative concrete per rafforzare questi legami. Rischiamo di perdere un’altra occasione.

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