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SETTEMBRE 2023 PAG. 48 - La riforma portuale italiana tra sviluppo e geopolitica

 



È tornata con forza e preponderanza nell’agenda di governo la vexata quaestio della riforma portuale nazionale. Un passo imprescindibile se si vuole rilanciare non solo l’economia, ma anche il ruolo italiano in ambito europeo e internazionale. Una verità quest’ultima spesso dimenticata o per meglio dire sconosciuta storicamente dalla leadership nazionale come molto ben evidenziato dall’ultimo lavoro di Marco Valle Patria senza Mare. Infatti non è certo un segreto che il buon stato dello scambio mercantilistico rafforza la proiezione della Marina Militare incrementando il peso geopolitico ed economico nazionale. Naturalmente questo assunto vale anche per il percorso a ritroso. Orbene come già accennato, fatta eccezione per alcuni storici casi, il Belpaese difetta quasi endemicamente di una vera e propria cultura navale e marittima. Ciò va a spiegare il perché nonostante l’Italia e la sua pregevolissima posizione geografica, ha sempre stentato ad esercitare il famigerato Sea Power. Occorre ricordare che il padre del potere marittimo, l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan ha identificato nella cultura nazionale e in quella della classe dirigente un fattore essenziale per poter esercitare, sviluppare ed attuare il famigerato Sea Power. Proprio in questo l’Italia difetta moltissimo. Tale assunto, che può sembrare un mero esercizio di retorica, spiega, per chi scrive, il motivo centrale per il quale la questione marittima e navale in Italia sia stata storicamente affrontata con riluttanza e non sempre in modo lungimirante. Comunque, è bene sottolinearlo, nonostante le pecche culturali nazionali il mondo continua ad evolversi e a svilupparsi soprattutto in ambito economico o meglio ancora geoeconomico. Per cui i processi di marittimizzazione dell’economia si sono moltiplicati subendo accelerazioni, incluse quelle storiche, sempre più frequenti e poderose. In fondo in una economia mondiale costituita dalla produzione, dall’acquisto e dalla vendita di beni è facilmente comprensibile che chi controlla il trasporto controlli il cuore del sistema. Va da sé che quello navale costituisca circa il 90% del totale mondiale. In questa chiave di lettura è facilmente intuibile che i porti non siano solo cerniera tra trasporto marittimo e terrestre, ma un vero e proprio centro di produzione a valore aggiunto e qualora questi non lo fossero dovrebbero inevitabilmente e molto rapidamente rimodularsi per reggere la sempre più pressante concorrenza estera ed internazionale. Per quanto detto non sorprende una certa eccezionale varietà di proposte in ambito governativo su ciò che dovrebbe trattare la riforma portuale nazionale. Infatti si passa dalla proposta dell’attuazione del modello pubblico spagnolo a quello autonomo del modello nordeuropeo per poi passare alla privatizzazione dei moli, mentre il Ministero del Mare sembra ancora impantanato sulla linea di partenza non avendo tuttora ben chiaro cosa farà da grande. In questa situazione necessita fare molta chiarezza nella speranza che si comprenda bene che nell’attuale economia uno Stato non può assolutamente fare a meno di una forte e organica logistica integrata dove i porti costituiscono un pivot di eccezionale importanza. Per cui partendo dal presupposto che se la data d’inizio dell’Era Moderna è stata identificata con la scoperta dell’America il nuovo millennio potrebbe essere identificato con i recenti lavori al canale di Suez o la nascita delle nuove rotte trans-oceaniche come la Nuova Via della Seta o la Rotta Artica e il ritorno del Mediterraneo come luogo strategico dello scambio marittimo commerciale. Proprio quest’ultimo aspetto costituisce un ulteriore motivo di criticità per i nostri porti poiché oltre a dover mantenere il passo con la concorrenza di quelli nord europei ora sono costretti a doversi confrontare anche con quelli nord africani che registrano una crescita considerevole, consistente, ma soprattutto costante. Per dieci anni i nostri porti hanno registrato la movimentazione di oltre 400 milioni di tonnellate e 10 milioni di container mentre tre soli porti del bacino Mediterraneo (Valencia, Algesiraz e Pireo) hanno raggiunto la quota di 15 milioni di container. Un dato che da solo spiega le notevoli complessità, ma anche le rilevanti difficoltà del sistema portuale nazionale che non riesce a crescere. Infatti se da un lato lo scambio commerciale nel Mediterraneo è considerevolmente aumentato dai lavori di Suez ad oggi i nostri porti mantengono una movimentazione pressoché invariata da circa dieci anni dando vita ad una guerra fratricida tra realtà portuali locali. Oltretutto al di là della storica concorrenza con i porti nord europei, dove comunque si mantiene il vantaggio di essere operativi per 365 giorni all’anno, i porti italiani sono stretti tra la crescita non solo di quelli nord africani (due esempi su tutti Port Said e Tanger Med), ma anche dagli altri competitors euro-turchi mediterranei. Anche le ultime riforme non hanno portato le migliorie e le semplificazioni sperate. Ci si riferisce sia alla ormai trentennale legge 84 del 1994 e al più recente decreto legislativo dell’allora ministro Delrio. Sintetizzando al massimo tali importanti riforme possiamo dire che se la prima prevedeva una sostanziale autonomia finanziaria delle Autorità di Sistema Portuale tale da rendere tali soggetti anche autonomi per la realizzazione di opere e migliorie portuali, naturalmente mai concretizzatasi, la seconda oltre alla creazione delle famigerate Zone Economiche Speciali prevedeva la messa in opera di due sportelli atti alla semplificazione e allo snellimento del poderoso sistema burocratico-amministrativo nazionale. In più quest’ultima annunciava una serie di sgravi fiscali che però sono rimasti nella penna del legislatore. L’assenza di un ministero dedicato che comprendesse la complessa e articolata materia in oggetto ha sicuramente complicato ulteriormente questa questione che ad oggi è centrale per il rilancio economico, sociale e politico nazionale. Per cui non sorprende il naturale stato di apprensione e preoccupazione quando sono apparse sui rotocalchi nazionali le prime proposte di privatizzazione dei porti accolte dal variegatissimo e complesso mondo Mare con riluttante sospetto. Infatti sarebbe auspicabile una riforma che vada verso la semplificazione e lo snellimento dell’apparato burocratico senza però creare cortocircuiti tra realtà centrale e gestione locale, evitando anche di creare selvagge privatizzazioni che alienerebbero il patrimonio pubblico realizzando concorrenzialità sbilanciate. In più, in chiave moderna bisognerebbe armonizzare e potenziare la rete logistica cercando di creare macro zone coerenti fortemente integrate e razionali in base a strategie d’intervento nazionale che se effettuate ridurrebbero notevolmente il numero delle attuali 15 Autorità di sistema portuali evitando inutili dispersioni, aumentando le economie di scala, ma soprattutto riducendo notevolmente l’atavica e storica concorrenza fratricida interportuale italiana. Una questione non certo banale se si considera il notevole tempo che s’impiega attualmente per passare dalla verticale tirrenica a quella adriatica, impresa, questa, degna dell’avventuroso Ulisse. Per cui una privatizzazione dei porti tout court non porterebbe alcun vantaggio al sistema paese, anzi ne rallenterebbe la crescita e l’uniformità. Da quanto detto si comprende con estrema chiarezza come il sistema portuale nazionale sia un perno imprescindibile su cui basare la ripresa nazionale. Ma per far ciò occorre comprendere non solo il nuovo ruolo dei porti, ma anche le tante variazioni e modifiche di un mondo in continua crescita ed evoluzione. La nascita di nuovi imponenti trade come l’RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) che forte dei 15 paesi membri rappresenta non solo il 30% della popolazione, ma anche un terzo del PIL mondiale ne è un esempio importante che si va ad aggiungere ad altre realtà in continua espansione come la BRICS che attentano alla leadership mondiale di pregresse organizzazioni intergovernative come il G7. Infatti se quest’ultimo ad inizio secolo poteva vantare un peso complessivo del 50% sull’economia mondiale ora non va oltre al 30%. Un dato che spiega la poderosa crescita della BRICS la quale se alla sua nascita (2011 con l’inclusione del Sud Africa) poteva vantare un peso complessivo di circa il 16% sull’economia mondiale ora si può fregiare di un più poderoso e consistente 32% circa. Il complesso mondo economico si muove attraverso gli scambi commerciali i quali vivono di rotte di navigazione. Per tale intuibile motivo i porti rappresentano uno snodo centrale del processo economico e produttivo di qualsiasi nazione. Per cui è auspicabile che la riforma portuale non alieni il patrimonio statale in alcun modo, ma lo armonizzi ampliando le reti intermodali eliminando gli sprechi e le disfunzionalità tenendo presente che oramai chi è a determinare il carico e condiziona i traffici non è più determinato dal binomio armatori/spedizionieri, ma da quello armatori/porto.

In definitiva è facilmente intuibile che è impossibile pensare ad una ripresa economica e politica nazionale senza passare ad una riforma portuale organica ed armonica che tenga ben presente delle trasformazioni in atto e che debba essere ineluttabilmente condivisa con i tanti operatori che costituiscono il variegatissimo mondo del Mare. Una necessita resa ancora più impellente dalla crisi economica del ceto medio europeo e dalla recessione alle porte. In pratica come avrebbe sostenuto Senofonte non basta sapere, bisogna volere.

Alessandro Mazzetti 

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